Esiste un chiaro principio generale nell’edilizia, che solo in taluni casi, oggettivamente dubbi, è stato scalfito, ma che, per il resto, è ormai pacifico e consolidato: se io ho un immobile che è stato oggetto di un titolo edilizio (di edificazione, o anche di successiva trasformazione), qualunque opera ulteriore o difforme che viene messa in atto e che muta lo stato dell’edificio rispetto ai binari dei titoli edilizi regolarmente consolidati, significa eseguire un abuso edilizio.
Le trasformazioni dopo l'acquisizione del titolo edilizio
In altre parole, ogni modifica, aggiunta, trasformazione eseguita successivamente all’acquisizione di un titolo, è una opera priva di una propria legittimità e può, dunque, essere perseguita dalla Pubblica Amministrazione come abuso. In parte, nell’attuale formulazione legislativa, alcuni interventi minori possono ritenersi, ad oggi, non essere difformità se rientrano negli stretti limiti delle tolleranze esecutive così come definite dall’art. 34 bis DPR 380/01, ma ciò presuppone il verificarsi di diverse condizioni tra cui 1. il fatto che le difformità siano lievi e riconducibili esattamente alle indicazioni della norma; 2. che le difformità si concretizzino senza una precisa intenzionalità di eseguire un’opera difforme; 3. che siano comunque opere eseguite nell’ambito della validità di un titolo abilitativo, escludendo di poter evocare le tolleranze esecutive per opere eseguite successivamente alla chiusura di una procedura autorizzativa.
Abusi e condono edilizio: la sentenza del Consiglio di Stato
Tutto ciò vale anche nell’ambito delle procedure di condono edilizio, come possiamo comprendere analizzando la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI n. 8767/2021.
Nella controversia oggetto della sentenza, è stato trattato il caso di un immobile oggetto di due distinte procedure di condono edilizio: una originaria che ha legittimato una intera costruzione (anche se era “al grezzo” al momento della presentazione della domanda), ed una successiva, finalizzata alla sanatoria di alcuni interventi puntualmente individuati. In vari accertamenti eseguiti dagli uffici comunali, è emerso che l’immobile oggetto di condono era stato successivamente trasformato con l’aggiunta di altri corpi accessori e, sopratutto, su opere di “completamento”, sui quali è, quindi, caduta la scure della disciplina edilizia. Le opere a “completamento” probabilmente si riferiscono al complesso di attività che sono state poste in essere per portare al “finito” l’immobile, il quale si trovava in stato “grezzo” al momento del deposito della prima domanda di condono. La determinazione dirigenziale finalizzata alla repressione dell’abuso appare essere molto puntuale e circoscritta alle effettive opere di “completamento” e “ulteriori” che risulterebbero effettuate in assenza di titolo.
Il cittadino cerca di arroccare una difesa basata su varie argomentazioni tecnico-edilizie, le quali, però, verranno tutte ritenute non accoglibili da Palazzo Spada.
Anzitutto, viene indicato, anche con l’ausilio di una consulenza tecnica di parte, che le opere in contestazione fanno parte di un complesso di interventi comunque effettuati per completare l’immobile, il quale come accennato fu dichiarato allo stato “rustico” nella domanda di condono, cioè non completato e non abitabile; con il secondo condono sono state poi indicate ulteriori opere, ma senza citare interventi di “completamento”. Sul punto, il Consiglio di Stato, confermando la visione del giudice di primo grado, indica non solo che gli interventi ulteriori, rispetto a quelli inizialmente individuati nella domanda, non possono ritenersi ricompresi nella sanatoria (tutto ciò che non è espressamente e puntualmente oggetto di domanda di sanatoria, non può considerarsi implicitamente sanato), ma anche che il cittadino avrebbe portato a termine il completamento dell’immobile senza seguire la specifica procedura prevista dall’art. 35 comma 13 della L. 47/85, il quale appunto fornisce la disciplina della procedura da seguire per completare immobili che all’epoca della presentazione della domanda risultavano incompleti e non abitabili. Dato che detta procedura sarebbe stata disattesa, non è sostenibile la tesi secondo cui le opere di completamento sarebbero una sorta di naturale prosecuzione dell’intervento.
Per rafforzare questa visione, la sentenza in commento ne cita una precedente, sempre Consiglio di Stato, attraverso un passaggio che è utile qui integralmente riportare: “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (pur se riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria, della ristrutturazione o della costruzione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche d'illiceità dell'opera abusiva cui ineriscono strutturalmente, giacché la presentazione della domanda di condono non autorizza l'interessato a completare ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la permanenza dell'illecito fino alla sanatoria” (Consiglio di Stato, Sez. VI, 10 giugno 2021, n. 4473)
Come secondo motivo di possibile difesa, viene indicato che l’immobile è soggetto ad un vincolo paesaggistico che non genera una inedificabilità assoluta, e che quindi il condono poteva essere ottenuto seguendo la specifica procedura dell’art. 32 L. 47/85. Palazzo Spada qui correttamente risponde che la questione del vincolo non ha rilevanza nel decidere: il vincolo è del tipo paesaggistico e non comporta una inedificabilità assoluta, ma ciò non significa che ciò ponga chi commette un abuso in una posizione di vantaggio “potenziale”. Anzi, in verità è esattamente l’opposto: in caso di vincolo, un abuso edilizio deve seguire la doppia strada per la sanatoria, sia la via edilizia, sia quella paesaggistica. Sostanzialmente, anche qui, viene evocato il concetto già espresso sopra: tutto ciò che non è espressamente oggetto di sanatoria, non deve essere considerato implicitamente sanato.
Con ulteriore tentativo di difesa, viene evocato il fatto che il provvedimento sanzionatorio non conterrebbe i caratteri prescritti dalla L. 241/90 ed in particolare l’indicazione dell’interesse pubblico violato e la valutazione dello stato dei luoghi, ma, anche qui, viene condivisbilmente rigettata la tesi, in quanto nella sentenza viene indicato che la procedura repressiva è un atto vincolato per la Pubblica Amministrazione, la quale non deve giustificare l’azione nel momento in cui l’abuso è palese e dimostrato. Piuttosto, forse nel caso di specie – ma è difficile a dirsi visto che nella sentenza non ci sono elementi per capire in concreto le opere contestate – si poteva ragionare sulla qualificazione delle opere, perché se un intervento a completamento fosse stato classificabile di manutenzione straordinaria, forse l’azione demolitoria non avrebbe potuto trovare applicazione, in quanto l’art. 37 del DPR 380/01 non la prevede nel caso di specie.
Conclusioni
In sostanza ed in sintesi, questa sentenza, ci trasmette i seguenti insegnamenti, comunque già noti:
che negli immobili oggetto di istanza di condono, le opere non espressamente rappresentate nel condono non devono considerarsi implicitamente sanate;
che nel caso in cui l’immobile sia stato oggetto di domanda di condono con uno stato “rustico”, cioè inabitabile, l’esecuzione delle relative opere a completamento deve essere oggetto di specifica abilitazione (art. 35 comma 13 L. 47/85), in assenza della quale sono opere prive di legittimità;
l’azione amministrativa, se si muove sulla base del riscontro di difformità palesi (o, comunque, non smentite dal privato, su cui grava l’onere di dimostrare eventualmente che non siano difformità), ha natura vincolata e non necessita né di specificare l’interesse pubblico violato, né deve necessariamente inviare atti di preavviso.